
Dare forma al proprio lavoro: Come divenire artigiani della propria professione
a cura di Dott.ssa Maria Mastrolonardo
Psicologa-Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale
“Ma tra la partenza e il traguardo, nel mezzo c’è tutto il resto e tutto il resto è giorno dopo giorno e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire. E costruire è sapere,è potere rinunciare alla perfezione”
Nicolò Fabi
Riflettere sul lavoro del terapista mi fa venire in mente la frase di una canzone, leitmotiv del mio percorso formativo: “…nel mezzo c’è tutto il resto, e tutto il resto è giorno dopo giorno e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire e costruire è sapere è potere rinunciare alla perfezione..” (Costruire di N. Fabi). È una canzone che mi risuona quando incontro giovani tirocinanti psicologi e quando partecipo agli incontri di intervisione con altri colleghi. Risuona tutt’ora in me e mi fa riflettere su dove mi trovo.
Mi trovo lì, tra l’inizio e il traguardo, in quel mezzo che descrive la canzone.
Lo sappiamo molto bene che le professioni socio-sanitarie sono quelle a più alto rischio di burn out, di bruciarsi, di farsi male somatizzando o di esaurire il proprio interesse verso il lavoro. Sono le cosiddette professioni di aiuto che quotidianamente sono coinvolte in attività che comportano relazioni costanti con persone che vivono un disagio, un limite o una sofferenza.
Entrare in una relazione con l’altro (l’adulto, il bambino, la famiglia, il malato, il disabile, il pazzo, ecc.) definita dalla cura crea inevitabilmente nel professionista delle aspettative idealizzate sull’aiuto offerto. Portando con sé spesso e volentieri un bel carico di frustrazione ogni volta che questa idea viene disattesa. Freud con la famosa frase sui mestieri impossibili, educatori, psicologi e genitori, pone sicuramente una questione importante: ci sono dei lavori in cui si vive una dimensione di impotenza, quell’impossibilità di Freud che spesso rimane implicita, non detta. Trasformare l’implicito in esplicito e rendere più accessibile e consapevole questa dimensione è una delle protezioni contro le “bruciature”.
Fabi canta che costruire è potere rinunciare alla perfezione, a quell’onnipotenza contraltare dell’impossibilità, dove c’è l’una c’è l’altra.
Come si rinuncia alla perfezione e all’impotenza? A mio parere attraverso il lavoro su di sé inteso come un’attenzione costante rivolta alla propria formazione. Non formazione accademica. Perché sembra anche che i professionisti sanitari debbano continuamente specializzarsi ad interim per la gioia degli enti formativi. Formazione intesa proprio come dare forma al proprio sé professionale.
L’immagine che più mi piace è quella dell’artigiano che con cura crea una forma, lima gli spigoli, si sporca le mani, aggiunge dei pezzi, è l’agente protagonista e il prodotto sarà qualcosa di unico e personale. Il terapista come uno scultore estrae una statua da un blocco di pietra, osserva, tocca, immagina e poi crea, aggiusta, ridefinisce.
Come un buon artigiano, il terapista appronta nel tempo la propria cassetta degli attrezzi fatta di:
- Parole. Qualsiasi attività riabilitativa deve essere presentata e accompagnata dall’uso delle parole. Porre attenzione alla narrazione significa già essere terapeutici. Usare ad esempio un linguaggio che evoca delle immagini facilita la comprensione rispetto ad un compito da svolgere, permette una connessione più diretta con l’altro.
- Ascolto. Ogni persona che incontriamo comunica non solo con le parole, ma anche con il corpo, con il silenzio, con l’opposività. Ascoltare significa riconoscere e dare nome a ciò che si è ascoltato. “Ti vedo stanco. Ci prendiamo una pausa?”
- Relazione. Osservare e curare la relazione con l’altro ha di per sé un valore terapeutico. Un bambino potrà mantenere un problema fonologico, ma può fare esperienza di esprimersi liberamente senza vergogna con un altro significativo.
Tutto questo lavoro sarà meno faticoso e più soddisfacente se ci si dà un tempo: darsi un tempo per valutare, ascoltare, accogliere, creare relazione, proporre obiettivi, programmi e salutare.
Il “lavoro di bottega” presuppone spesso un lavoro uno ad uno. Il rischio è di chiudersi nel proprio laboratorio. Nel mio personale giorno dopo giorno apprezzo e ricerco il gruppo come setting che favorisce la crescita e lo scambio. Che sia un gruppo di colleghi omogeneo, che sia un gruppo di lavoro d’equipe eterogeneo. Nel gruppo la funzione di specchio e di pensiero si moltiplica e diviene una risorsa. Una sorta di atelier condiviso in cui poter guardare fuori dalla propria stanza e ritornare dentro con maggiore curiosità e voglia di sperimentarsi.
Ognuno può diventare artigiano della propria professione e creare la propria personale bottega.