L’alleanza e la relazione tra famiglia e professionisti: collaborare, non sostituire

a cura di Patrizia Vaccaro

“C’è la bellezza e ci sono gli oppressi, per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi”

Albert Camus

La nascita di un bambino disabile è evento fortemente traumatizzante, che spesso tradisce fantasie e attese e di frequente, mette a dura prova il rapporto di coppia, determinando conflitti o accrescendo un disagio preesistente.

Come ricorda Jackson [1957], nello sforzo di conservare l’omeostasi, si assiste ad una confusione di ruoli, al rifiuto di effetti e conseguenze collegati alla patologia, nella speranza di rendere più accettabile una realtà percepita come insostenibile.

Queste famiglie tendono a mantenere lo status quo ante, negando che ci sia bisogno di cambiamenti per affrontare il problema. Inevitabilmente gli schemi messi in atto dalla famiglia per superare questo evento, producono una forma di stress, che influenzerà considerevolmente lo sviluppo futuro del bambino, della famiglia stessa ed inevitabilmente come effetto cascata il trattamento da porre in essere con i professionisti del settore.

Chi svolge una professione d’aiuto può trovarsi a dover rispondere a bisogni non sempre soddisfacibili, sia per la mancanza di mezzi, sia perché le richieste possono essere improprie, questo a lungo andare può portare uno stato di logoramento e di stress psicofisico. Gli operatori sanitari sono oggetto di molteplici pensieri e fantasie da parte della famiglia; saranno coloro che “gli ricorderanno ogni giorno che il proprio figlio ha un problema”; “coloro che salveranno il proprio figlio”; metteranno a dura prova la competenza, l’emotività ed in alcuni casi la pazienza di ogni professionista che ad ogni traguardo non raggiunto del proprio figlio verrà definito incompetente.

Ho imparato con gli anni che quando si entra a contatto con una famiglia, la prima cosa da fare è ENTRARE IN PUNTA DI PIEDI, noi stiamo varcando un territorio minato, non si fidano di noi perché nelle nostre mani abbiamo quello che per loro è più prezioso al mondo, il loro bambino! Il nostro lavoro è rappresentato da un groviglio ribollente di stati d’animo, pensieri, emozioni, accogliamo la loro rabbia, il loro dolore, i loro sorrisi, le speranze, i fallimenti, la voglia di scappare; forniamo a volte una carota e l’altra un bastone, esplicitiamo sempre regole semplici e chiare, soprattutto che possono essere d’aiuto per innalzare la qualità di vita dell’intero nucleo familiare; non serve a nessuno se abbiamo un bambino che etichetta e riconosce 200 stimoli e poi non sa mangiare da solo, i genitori non riescono a fare la spesa o andare a mangiare una pizza fuori.

Gli obiettivi iniziali di ogni trattamento vanno condivisi con la famiglia per stabilire insieme quali siano le priorità. Dopo che riusciremo piano piano a superare quel campo minuto, avremo ottenuto la fiducia, l’alleanza terapeutica e vi posso assicurare che non lavorerete nemmeno un solo giorno, perché faremo con passione e sapere specialistico quello per cui abbiamo tanto lottato per raggiungere: la nostra professione! Risulta difficile mantenere insieme tutti questi elementi e variabili in continuo cambiamento.

Come possiamo stare vicino ai nostri pazienti ma non eccessivamente?

Possiamo pensare ai RICCI, che riescono a trovare la giusta distanza per riscaldarsi senza pungersi; ebbene ogni volta che entrate all’interno di una nuova costellazione familiare pensate al riccio, mi è stato molto d’aiuto nei primi anni di lavoro e non nego che dopo tanto tempo mi giunge ancora in soccorso.

Un aspetto importante, da non sottovalutare e da indagare quando si entra in contatto con una nuova famiglia è conoscere le modalità con cui viene data la prima comunicazione, in quanto tale evento, può avere influenza nella modificazione dei flussi comunicativi in tutta l’équipe pluridisciplinare. È ormai riconosciuto che i genitori saranno condizionati in modo positivo o negativo nell’accettazione della disabilità del loro bambino a secondo della modalità di trasmissione della prima comunicazione e, “in seguito alla diagnosi i genitori generalmente passano da una fase di shock, ad una di incredulità e di elaborazione del problema; solo successivamente potranno iniziare a costruire un rapporto reale con il proprio figlio”.

Le prime persone alle quali i genitori esprimono la loro collera è spesso il personale sanitario che ha il delicato compito di modulare con estrema attenzione i contenuti molto dolorosi della comunicazione ma, se i genitori non trovano riscontro alle ansie e ai timori generati dalla nuova situazione, la nuova condizione può condurli alla ricerca di differenti pareri relativi allo stato di salute del figlio. Le interazioni fra i diversi sistemi possono poi generare problemi comunicativi, quali incomprensioni e/o conflittualità, ed essi possono verificarsi anche all’interno della famiglia stessa (solitamente allargata a zii e nonni). Anche la mancata possibilità di uno solo degli elementi del sistema di essere ascoltato, può determinare reazioni di rabbia e conflittualità, che rendono impossibile un sereno sostegno al bambino con disabilità.

Indispensabile è far sentire coinvolti tutti i componenti, chiedendo loro di far rispettare una serie di indicazioni (regole educative, norme igieniche, rispetto degli orari). Gli si possono chiedere compiti specifici, gratificandoli, all’incontro successivo, per la loro dovizia, ma soprattutto è importante riservare, a chi faticosamente impegna parte del suo tempo alla cura e all’accompagnamento della persona con disabilità, un sorriso, un gesto di riconoscimento, un semplice grazie. Un aspetto fondamentale per gli operatori è entrare in connessione con il punto di vista della famiglia per dare forma ad un intervento efficace.

Compito importante degli operatori sanitari che prendono in carico un bambino con disabilità è, dunque, ricordarsi che esso non può essere considerato come elemento a sé stante, per cui l’autentica presa in carico dovrà prevedere, all’interno di un progetto riabilitativo, anche il coinvolgimento della famiglia. Se a quest’ultima vengono fornite una serie di indicazioni discordanti fra loro, o comunque poco chiare o accessibili, difficili da mettere in pratica, essa non fruirà dei mezzi necessari atti a prendere importanti e delicate decisioni sulla salute del piccolo. Piuttosto si instaurerà, così, un rapporto di sfiducia che trasformerà il rapporto con il sistema di cura o di riabilitazione difficile e conflittuale. Una scarsa attenzione ai bisogni della famiglia o anche solo l’esprimere commiserazione per il bambino, possono determinare difficoltà relazionali e comportamentali, causando la difficoltà a mantenere corrette condotte educative.

La gestione di disturbi e patologie comportamentali e non, è complessa: coinvolge azioni, pensieri, comportamenti, gesti, sensazioni ed emozioni; ma soprattutto varia da caso a caso. Le finalità di un siffatto percorso sono: individuare le criticità, fornire strategie di intervento e le informazioni necessarie alla comprensione del problema, favorire una comunicazione efficace e affrontare le problematiche.

GLI OPERATORI SANITARI POSSONO FARE MOLTO, TRASFORMANDO LA FAMIGLIA IN PARTE ATTIVA DEL CONTESTO DI CURA.

Un primo step si concretizza nell’osservazione della quotidianità familiare, attraverso un REPORT che fornisca indicazioni su comportamenti, modalità comunicative e di interazione, metodologie educative, pensieri e tutto ciò che può risultare utile per comprendere i punti critici sui quali intervenire. Successivamente si forniranno strumenti, strategie e procedure di intervento mirate alla gestione di questi punti critici al fine di trasferire strumenti di gestione significativi e riproducibili nel tempo; es: Schema A-B-C: antecedente – comportamento – conseguenza)

La figura dell’operatore sanitario diventa per la famiglia un autentico punto di riferimento, una persona con cui condividere ansie e inquietudini. Nel corso degli anni egli impara a riconoscere meglio di ogni altro i bisogni particolari della famiglia, trasformandosi in un tramite tra i familiari, la persona disabile e il resto della società. Avrà la responsabilità di guidare la famiglia nel trovare soluzioni adatte ai loro problemi e in quelli più specifici interverrà direttamente con le sue conoscenze, proponendo i metodi più adatti e, come evidenziato da E.H. Schein, [1992] avrà il ruolo di consulente di processo supportandoli nella ricerca delle soluzioni che poi troveranno da soli.

Appare chiaro che, se i familiari svolgono questo ruolo positivo, anche per essi è essenziale stabilire un rapporto e poter comunicare con l’equipé di cura, tenendo conto che “i problemi che impediscono spesso che questo si verifichi sono fondamentalmente due: pochi contatti coi professionisti e accesso alle informazioni limitato e/o distorto”.

Questo significa una RELAZIONE PARITARIA DI LAVORO in cui gli esperti imparano e usano le esperienze uniche dei genitori con il loro bambino e in cui gli operatori offrono ai genitori la loro conoscenza sul campo e l’esperienza con molti bambini. Ogni intervento diventerebbe così utile per il bambino, adattandosi allo stile di vita della singola famiglia e riflettendo la migliore conoscenza scientifica disponibile.

“Un buon team è come un dipinto fatto di tanti colori ciascuno dei quali è necessario e importante”